I LIBRI D'ARTISTA DI ENRICO BAJ
Michele Tavola
Da Lucrezio a Soledad Rosas, un percorso tutt’altro che lineare lungo mezzo secolo
La differenza che vi è al tatto tra una guida del telefono, il Corriere della Sera e un “libro d’artista” è enorme e va dal disgusto all’estasi.
Enrico Baj
I primi esperimenti grafici di Enrico Baj sono diventati un libro d’artista. E, anche negli anni successivi fino alla fine dei suoi giorni, ha spesso inteso la produzione grafica come funzionale alla realizzazione di libri d’artista. È sufficiente sfogliare una monografia dedicata a questa imponente (da un punto di vista quantitativo) e importante (da un punto di vista estetico, qualitativo e concettuale) parte della sua produzione per rendersi conto del fatto che l’esecuzione di incisioni e litografie è sovente contestuale alla pubblicazione di un prezioso volume a tiratura limitata. Quando Luciano Caprile, nell’intervista edita nel 2000, gli chiese laconicamente cos’è un libro d’artista, Baj rispose alla sua maniera, andando dritto al punto: “È un libro fatto da un artista”. Vale la pena integrare la sentenza di Baj con la definizione fornita da Donna Stein, tra i massimi studiosi di questa singolare tipologia di opere d’arte, in termini meno apodittici ma più filologici: “Il termine livre d’artiste, un’invenzione squisitamente francese, definisce un’edizione limitata, una pubblicazione fatta a mano che tipicamente associa parole con grafica d’arte originale, eseguita e stampata sotto lo stretto controllo dell’artista. […] Per un livre d’artiste, l’artista, l’autore, l’editore e lo stampatore devono spesso lavorare insieme progettando il rapporto tra testo e immagine, scegliendo il carattere tipografico, la carta, la modalità di stampa e la rilegatura per ottenere un prodotto di alto livello”. Nella stessa conversazione citata appena sopra non venivano trascurati nemmeno gli aspetti più prosaici connessi a tale genere di lavori e, alla provocatoriamente secca e asciutta domanda “ma questi libri si vendono?”, l’artista seppe controbattere con un’inattesa e sorprendente apertura poetica: “Questi libri sono soprattutto un dono che gli artisti, i poeti e gli stampatori fanno a se stessi”. Anche Donna Stein, consapevole delle mistificazioni che purtroppo ammantano la grafica, troppo spesso ingiustamente tacciata di essere una produzione meramente o principalmente commerciale, sentì la necessità di puntualizzare e ristabilire la verità storica: “La natura del materiale, il tempo speso e i costi hanno poco a che vedere con il successo finale dell’opera”.
Prima di passare in rassegna i principali libri d’artista di Baj, per rendersi conto della passione, della dedizione, della costanza, dell’impegno, dell’acribia, delle energie e del tempo da lui profusi per creare le sue stampe e i suoi libri, è necessario evocare un’altra testimonianza tanto precisa quanto commovente. Si tratta delle parole di Giorgio Upiglio, uno tra i più grandi stampatori italiani, suo assiduo e indispensabile collaboratore: “A Baj piace lavorare nella stamperia, inventare, creare le matrici “sul posto”, sperimentare ogni tecnica, adattarla alle sue esigenze creative coinvolgendomi in un continuo scambio di idee: dall’acquaforte tradizionale, cioè ricoprire la lastra di una vernice a cera sulla quale Baj con una punta d’acciaio esegue il disegno che poi sarà inciso dall’acido, a quelle più inventate, più complesse. Qui la collaborazione con l’artista diventa più attiva, perché dobbiamo trovare il modo di trasferire e incidere sulle lastre nastri di tela, lamierini traforati, broccati, pizzi, passamanerie, tessuti diversi; imprimere elementi di meccano, medaglie, catarifrangenti, tappi a corona, fregi, gradi o quant’altre cose Baj porta in stamperia per comporre le sue opere. La lastra spesso viene completata con interventi di acquatinta, e altre tecniche quali maniera a zucchero, vernice molle, carborundum, oppure con collage di etichette, elementi decorativi e stoffe. In tale processo creativo l’immagine si forma in diverse fasi, cui fanno seguito le morsure della lastra “in primo stato”; vi sono poi altri passaggi fino al “bon à tirer”, che premia un lavoro collettivo, fatto di ricerca, invenzione, intuizione”. Già il semplice elenco di tecniche di stampa snocciolato da Upiglio restituisce plasticamente la profonda competenza affinata negli anni da Baj, il suo genuino interesse e il bisogno impellente di approfondire fino all’ossessione le possibilità espressive della stampa d’arte. L’artista stesso, nella pirotecnica Automitobiografia, ha voluto parlare in prima persona della sua tecnica incisoria, contribuendo in maniera decisiva a far comprendere quanto sia alchemica, complessa e ricercata pur essendo allo stesso tempo istintiva, spontanea e urgente: “Se è tutto buono a far pittura, e cioè non solo i colori tradizionali, ma anche gli oggetti, le materie e i manufatti, così nell’incisione, il rame, lo zinco, la pietra, un foglio, una lastra, un’impronta, un pizzo, tutto serve a stampare o a venir stampato. In genere si comincia sempre col rame, con l’acido e con la cera; poi le cose si complicano perché vuoi metterci del colore e dello spessore e perfino materie e oggetti disparati. Mi piace fare incisioni servendomi delle varie tecniche comprese quelle fotografiche. Mi sono più volte interessato ai rapporti tra incisione e pittura e anche e soprattutto della trasposizione in termini grafici di tecniche, come appunto quella del collage, che a prima vista sembra tipica e esclusiva del modo di far quadri. Così anche nell’incisione ho cominciato a impiegare carte da parati per i fondi, o anche le cosiddette carte di Varese e poi ho comprato a pacchi etichette di vini e di liquori e altri elementi decorativi di qualsivoglia tipo, in genere di carta, che aggiungevo per ricavarne gli stessi effetti di collage che ottenevo nei quadri. Inoltre nel fare stampe si possono mescolare tra loro le varie tecniche tipiche dalla calcografia alla litografia, alla serigrafia; si può spruzzarvi sopra con la pistola della polvere di velluto e cospargere il tutto di brillantina, dopo avervi prima steso la colla. Se tutto viene a noia, si va a cercare qualcos’altro, lo si mette sulla lastra e dopo averlo imbevuto di inchiostro, lo si passa sotto la pressa e così la sua impronta si schiaccia sul foglio e vi resta”. Sebbene, come spiegato in maniera analitica da Angela Sanna nella prefazione alla più recente edizione dell’autobiografia, ogni testo di Baj ha innanzitutto un intrinseco valore letterario e artistico, le sue parole, sommate a quelle sopra citate di Giorgio Upiglio, vanno a costituire una traccia di straordinaria importanza per ricostruire il suo modo di lavorare al torchio e per capire il suo modus operandi.
I primi esperimenti grafici di Baj vengono svolti all’acquaforte tra il 1952 e il 1953 e successivamente, nel 1958, utilizzati per illustrare il De rerum natura di Lucrezio. Non appare certo un caso che un artista che all’epoca si autoproclamava “nucleare” abbia scelto di illustrare quello che lui stesso ha definito “uno dei primi poemi atomici conosciuti”. I fogli che aprono il suo catalogo di incisioni, riconducibili proprio allo stile nucleare, mostrano segni profondi, solchi neri che si avviluppano in moti circolari e spiraliformi tracciati con furia. Si ha l’impressione che l’artista abbia voluto far lavorare l’acido fino al limite di sopportazione del metallo, cercando quasi il punto di rottura, il confine estremo al quale spingere le morsure. Fin dall’inizio, fin dal primo tentativo sembra voler sfuggire alle prescrizioni delle regole da manuale e al conforto dell’esperienza sedimentata in secoli di storia. Baj, fin da subito, scalpita e cerca a forza, con furore, la propria dimensione. Con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto e con il gusto per il racconto, possibilmente paradossale, che avrebbe fatto di lui un grande scrittore se non avesse privilegiato le arti visive, nell’Automitobiografia rende una singolare testimonianza dei suoi primi tentavi all’acquaforte: “La prima lastra, una testa solare, fu drammatica. Avevo comprato le lastre di rame dalla ditta Necchi Metalli in viale Montenero. Le incerai io stesso e poi, una volta incisa la prima, la misi in una vaschetta contenente acido nitrico puro. La reazione fu brutale: l’acido cominciò a ribollire attaccando la lastra violentemente, smangiandola e provocando densi fumi che, ahimè, respirai. Riuscii a ritirare la lastra appena in tempo, prima che fosse irrimediabilmente compromessa, aprii le finestre del piccolo locale e cominciai a tossire, a tossire per via di quei fumi che mi avevano intossicato. Tossii per tutto un giorno. Questa fu la mia prima incisione e tale restò nella serie illustrativa. Capii che la notevole reazione dell’acido puro poteva essere utilizzata per certi effetti materici, dato che incideva la lastra sgranandola, quasi mangiandosela. Così, avendo l’accortezza di non respirare quei tremendi vapori, feci alcune lastre all’acido forte”. Se si vuole leggere tra le righe e scavare sotto la verve narrativa del sapido episodio, emerge il metodo sperimentale dell’artista innovatore, che dalla contravvenzione alle regole e dagli errori arriva a trovare nuove vie tecniche ed espressive. Fin da subito, il pittore che per tutta la vita avrebbe dimostrato una straordinaria sensibilità per la materia, anche nella grafica cerca e trova (verrebbe voglia di citare il Picasso di “prima trovo, poi cerco”) gli “effetti materici” tanto desiderati.
Forse sull’esempio di Picasso che negli anni venti alternava forme che attingevano ancora dalla grammatica cubista, invenzioni di intonazione surrealista e composizioni di gusto neoclassico, nella sessantina di incisioni eseguite tra il 1952 e il 1953 Baj alterna senza soluzione di continuità uno stile classicheggiante a quello più squisitamente d’avanguardia. Queste due anime convivono armonicamente nelle trentasei incisioni del suo De rerum natura. Come lui stesso ha raccontato in origine aveva realizzato ben sessanta lastre, ma per l’edizione di Schwarz ne vennero selezionate trentasei, suddivise in tre sezioni denominate Storie del sole, Storie della vita, Storie della morte. Tra l’esecuzione delle incisioni e l’edizione passarono ben cinque anni, nel corso dei quali Baj ebbe il tempo di pubblicare tre volumi accompagnati da grafica originale: per la Descrizione di Orfeo di Beniamino Dal Fabbro del 1954 e per Poi ancora un giorno di Osvaldo Patani del 1956 vennero utilizzate alcune delle incisioni originariamente pensate ma successivamente non scelte per il poema lucreziano, mentre la prima monografia di Enrico Baj, scritta da Edouard Jaguer nel 1956, venne accompagnata da litografie con le quali si assiste al prepotente ingresso del colore nella sua opera grafica. Questi primi volumi, però, contengono un numero esiguo di stampe che non nascono in dialogo con il testo e, di fatto, non corrispondono all’idea che Baj stesso aveva di ciò che dovesse essere un vero e proprio libro d’artista, ovvero un’architettura complessa nella quale diversi elementi dialogano tra loro. Quello che viene considerato unanimemente dall’artista e dalla critica il suo primo vero e proprio libro d’artista è, in realtà, un oggetto anomalo, per certi versi ancora vicino alla tradizionale cartella di grafica, seppure pervaso da una potente suggestione letteraria: le trentasei acqueforti sono accompagnate, anziché dai versi Lucrezio, da un denso e importante saggio critico di Roberto Sanesi, ma sono state “suggerite” e ispirate dal De rerum natura.
Dopo queste prime prove bisogna attendere il 1964 per vedere una nuova edizione. Se la grafica e i libri degli anni cinquanta hanno il sapore della sperimentazione, del tentativo, della ricerca, con Dames et Généraux Baj esibisce una notevole maturità tecnica e dimostra di avere conquistato la piena consapevolezza di come si costruisce l’architettura di un libro d’artista. Il volume, edito a Parigi da Heinz Berggruen e a Milano da Arturo Schwarz, è composto da dieci acqueforti a colori di Baj, dieci poesie di Benjamin Péret, un saggio introduttivo di André Breton e un faux titre o antiporta che dir si voglia creato da Marcel Duchamp: in un solo libro, accanto al nome di Baj compaiono i nomi di due dei più grandi mercanti, editori d’arte e collezionisti del secolo scorso, di uno dei principali poeti francesi del Novecento, del padre fondatore del surrealismo e di uno degli artisti più rivoluzionari di tutti i tempi. Basterebbe Dames et Généraux per restituire le proporzioni del respiro internazionale della sua opera e del suo pensiero. Le incisioni, insieme alle sette litografie di Larmes de Généraux del 1965 che trattano lo stesso tema iconografico, rappresentano uno dei punti di contatto più forti e stretti tra la grafica e la pittura di Baj, che ha dedicato una parte importante della sua produzione alla derisione del potere e alla denuncia della sua tracotanza. La figura del Generale, sempre tronfio e grottesco, che in pittura aveva fatto la sua apparizione già dalla fine degli anni cinquanta e che nella grafica compare qui per la prima volta, trova in questi fogli una delle declinazioni efficaci e visivamente potenti.
Il saggio prosegue nel catalogo: BAJ - libri in libertà, stampato dall'editore Scalpendi. È possibile acquistarlo presso le librerie e presso Bottega Brera, il design and bookshop accessibile direttamente dal cortile d’onore del Palazzo di Brera, via Brera 28, Milano.
The essay continues in the catalogue: BAJ - libri in libertà, printed by the publisher Scalpendi. It can be purchased at bookshops and at Bottega Brera, the design and bookshop accessible directly from the main courtyard of the Palazzo di Brera, via Brera 28, Milan.